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martedì 8 maggio 2007

SHOOTER

Anche i kolossal hollywoodiani si aprono alle terie conspirazioniste sulla politica (estera) americana post-11 settembre. Accade con Shooter, il nuovo film di Antoine Fugqa nelle sale italiane dallo scorso 20 aprile.
Da un punto di vista estetico la cosa non ha grande rilevanza, dal momento che Shooter altro non è che uno dei tanti film d’azione dozzinali che Hollywood sforna copiosi ogni anno, ma dal punto di vista sociologico invece ha un qualche interesse.
La trama è semplice, finanche grossolana. Swagger (Mark Whalberg) è un eroe della guerra in Etiopia. Ha visto morire con i suoi occhi un commilitone amico, e con la sua proverbiale perizia balistica lo ha vendicato – tra profluvi di effetti speciali, ovviamente.
Tornato in patria si è ritirato a vita privata in una casa sperduta sui monti. Ma un giorno ecco bussare alla sua porta degli agenti dell’FBI. C’è da sventare un possibile attentato al presidente da parte di un cecchino: chi meglio di un tiratore scelto di riconosciuta bravura come Swagger può assolvere il compito? Dopo qualche tentennamento il veterano accetta, finendo per trovarsi incastrato in un complotto di proporzioni bibliche.
Non andiamo oltre. E sufficiente questa breve sinossi per immaginare che genere di film sia Shooter. Inseguimenti mozzafiato, continue esplosioni, scene d’azione parossistiche ed inverosimili, ralenti virtuosistici, il tutto ovviamente condito dalla necessaria dose di humor e di dialoghi scoppiettanti, in stile Die Hard. E l’inevitabile sottotrama romantica. Niente di originale quindi, seppur confezionato con grande cura.
Ma ciò che interessa di Shooter è il cambiamento di paradigma nei confronti della storia patria. Verso la metà del film il protagonista parlando con la moglie del commilitone ucciso anni prima afferma di aver accettato l’incarico per il suo senso del patriottismo tipicamente americano di cui non va troppo fiero ma del quale non riesce neppure a vergognarsi.
Sembra una frase buttata lì, ma non è così. E’ il polso della disillusione dell’opinione pubblica americana nei confronti dell’ottimismo ufficiale sulla bellicosa politica estera della presidenza Bush. Qualcosa si sta incrinando e anche un film decisamente nazional-popolare, di quelli che i teenager americani consumano nei multisala insieme agli hamburger ipercalorici di Mac Donald, può sperare in buon incasso prendendo in giro il presidente con l’elmetto. Un bel salto in avanti dai tempi di Indipendence Day.
Naturalmente non è tutto rose e fiori. Il film prosegue e la vendetta con annessa pioggia di fuoco che Swagger si prende nel finale dimostrano che anche il kolossal “progressista” Shooter, con la sua esaltazione della violenza e dell’individualismo è figlio della stessa America tronfia e vittoriana di George W. Bush. Ma, per parafrasare un noto cantautore romano, il paese non è più molto giovane e in pochi tra la vita e la morte – di fronte alle salme che ogni giorno tornano dall’Iraq – sceglierebbero l’America.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

lunedì 23 aprile 2007

IL PIACERE E L'AMORE

La critica, dopo il paesaggio a Cannes dell’anno scorso, lo ha definito l’Antonioni turco. Quel che è certo è che Nuri Bilge Ceylan, di cui già qualche anno fa, avevamo potuto vedere lo splendido Uzak, si conferma con questo suo quarto lungometraggio (il terzo a uscire sugli schermi italiani) una delle personalità più interessanti del cinema d’autore internazionale.
Una prima notazione va riservata al titolo italiano, a dir poco scellerato. Il distributore, la BIM (comunque coraggioso a mandare nelle sale un film d’autore turco) ha optato per il libidinoso Il Piacere e l’Amore sperando che un qualche vago istinto pruriginoso, complice il trailer, potesse attirare il pubblico nelle sale; in questo modo ci ha fatto quasi rimpiangere i tempi in cui Domicile conjugal di Truffaut veniva trasformato in Non drammatizziamo è solo questione di corna.
Il titolo originale Iklimer [tr. Climi] permette invece di comprendere meglio la delicata vicenda del film, che comincia in un solare pomeriggio d’estate nella località balneare di Kas e termina in una nevosa mattinata d’inverno nell’entroterra del paese.
In mezzo c’è la fine di un amore e il girovagare stanco di un uomo in cerca di un irraggiungibile ubi consistam (sentimentale, ma non solo) e allo stesso tempo incapace di vivere ed affrontare le proprie responsabilità. Isa il protagonista è infatti un professore universitario, tanto inabile a dare una svolta alla propria carriera (la sua tesi di docenza giace nel dimenticatoio da anni) quanto alla propria vita affettiva (divisa com’è tra la “compagna stabile” Bahar con cui non riesce a comunicare e l’amante Serap, a cui non lo lega nient’altro che un desiderio fisico tanto feroce quanto arido).
Ma le stagioni trapassano e la neve finale che invade lo schermo (quasi come la neve di Joyce invade la pagine finali di Gente di Dublino) sembra suggerirci che la rozzezza e l’immaturità del protagonista si è fatta gelo e grigiore esistenziale, morte spirituale, in attesa forse di una nuova primavera.
Che si tratti di una metafora della Turchia attuale, attratta tanto dalla modernità e dallo stile di vita occidentale quanto indissolubilmente legata alla sua storia profonda e alle sue pulsioni ancestrali (pulsioni che il regista Bilge Ceylan sembra quasi materializzare plasticamente in una delle scene d’amore più violente, ambigue ed affascinanti degli ultimi anni)?
Può darsi. Ma quello che più conta qui sono la qualità eccelsa della scrittura filmica e l’originalità dell’universo poetico di Bilge Ceylan. La capacità di far parlare le cose da sole, che siano gli stupendi e sconfinati paesaggi della Turchia o i più piccoli e irrilevanti dettagli della realtà quotidiana: un insetto che cammina sulla terra riarsa, una nocciolina che rotola lenta sull’impiantito di un salotto borghese di Istanbul. Insomma la capacità di dare piena espressività significante ad ogni inquadratura, dentro ad un linguaggio filmico basato sullo ieratico concatenamento di lunghi piani fissi e rapidi totali di abbacinante bellezza.
Cosi anche uno sporadico ralenti sul volto della protagonista o un suo pomeridiano sogno “fuori fuoco” possono dar vita ad aperture di senso inaspettate, a squarci di poesia od illuminazioni improvvise.
Forse Il piacere e l’Amore, per via del suo lirismo pensoso, scarno e purificato, non sarà per tutti i gusti, ma rappresenta un’opera importantissima nel panorama del cinema mediorientale attuale.

sabato 31 marzo 2007

LA MASSERIA DELLE ALLODOLE

Turchia 1915. In una cittadina di provincia la famiglia armena degli Aviakan ha buoni rapporti con tutti, dalla sua casa entrano ed escono le autorità della città. Ma la morte del nonno, importante patriarca sembra essere una premonizione del rapido cambiamento in atto, così come il getto di sangue che questi vede nel delirio dell’agonia, un attimo prima di spirare. I giovani turchi infatti sono in ascesa, e la “soluzione finale” verso la minoranza armena è già cominciata.
I membri della famiglia e la comunità armena della piccola città si rifugiano nella masseria delle allodole, vecchia costruzione di proprietà della famiglia. Ma questo non potrà evitarne la deportazione, né le saranno d’aiuto i molti amici turchi.
Anche se i fratelli Taviani hanno dichiarato di non aver voluto «Disegnare un quadro storico» affermando altresì di essersi limitati a «seguire alcune creature, i loro destini particolari, e proiettarli poi in un grande evento collettivo», è innegabile che il loro cinema sia dai tempi di Allosanfan, fino a quest’ultima opera, uno dei pochi che cerchi di infondere nel proprie immagini il respiro epico della storia, nella sua concretezza palpabile, nelle sue manifestazioni tanto ideali che materiali. E’ questo un merito innegabile anche in un opera come La masseria delle Allodole dove pure a volte (soprattutto nella prima parte) si avverte qualche cedimento verso un linguaggio televisivo, privo di quegli sprazzi di lirismo che caratterizzavano le loro opere maggiori, come La notte di San Lorenzo. Ne importa molto se i personaggi appaiono a volte tipizzati, schiacciati sugli “affetti” di ottocentesca e melodrammatica memoria che li spingono (l’ottimismo della ragione del capofamiglia Aram, l’impeto della passione di Nunik, la volontà di riscatto del mendicante Nizim, il donchisciottesco idealismo di Assadour ecc.), perché ognuno trova posto nella funzionale struttura romanzesca scelta dai Taviani – forse suggerita dall’origine romanzesca della fonte utilizzata, il libro semi-autobiografico della scrittrice sopravvissuta al genocidio Antonia Asrlan.
E neppure i due registi toscani si ritraggono di fronte all’orrore delle vicenda, quasi mai risparmiato agli spettatori, seppur mai mostrato con compiacenza.
Quel che ne esce è un film importante, il più duro e sanguigno dei due cineasti, ancorché meno provocatorio e polemico di molti altri. Ma tuttavia destinato a scatenare comunque grandi polemiche in tempi in cui si parla sovente di entrata della Turchia in Europa e perfino il pontefice Benedetto XVI si è recato in una trionfale visita ad Ankara, in un clima di omertà diffusa sul fatto che quel paese seguita, almeno ufficialmente, a non riconoscere la paternità di un genocidio che ha significato la morte di quasi 2000000 di persone.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

mercoledì 28 marzo 2007

DEATH OF A PRESIDENT

Gabriel Range è un giovane regista inglese, specialista del mockumentary, il genere del finto documentario, cioè il documentario che ricostruisce un avvenimento mai avvenuto. Già nel 2003 mise in scena una mai avvenuta paralisi dei trasporti inglesi, in un lavoro televisivo per la Bbc, The day Britain stopped. Tre anni dopo con Death of a president, - film in uscita venerdì 16 marzo nelle sale italiane - si spinge addirittura ad ipotizzare l’assassinio del presidente americano George W. Bush. E subito giù polemiche, per il cattivo gusto, l’incitazione alla violenza e chi più ne ha più ne metta. Polemiche, diciamolo subito, tutte strumentali e assurde dal momento che il film non giustifica ne incita ad alcun atto violento, ma utilizza l’eventuale (ed esecrato) assassinio del presidente statunitense come metafora del 11 settembre e come pretesto per far riflettere sulla situazione dell’America attuale. Insomma fantapoltica (o verrebbe da dire fanta-coscienza, se questo termine non fosse appannaggio esclusivo del genere sci-fi ), parlare del futuro per proseguire in altri termini la discussione sul presente.
La vicenda è ambientata nel novembre 2007. Bush è ancora alle prese con Iraq e Afghanistan e in più mostra intenzioni bellicose anche nei confronti di Iran, Siria e Corea del Nord. Il presidente è atteso al Club Economico di Chicago per un discorso sulla politica interna ed estera dell’amministrazione. Intanto in città monta la protesta (la scelta dell’ambientazione non è casuale: Bush è realmente stato contestato nel 2003 e nel 2006 a Chicago e inoltre la capitale dell’Illinois è stato teatro di epiche proteste già ai tempi del Vietnam - chi non ricorda l’assedio alla Convention democratica nel 1968?).
Lungo il tragitto che lo porta all’Hotel Sheraton, il convoglio del presidente è addirittura bloccato dai manifestanti. La tensione è palpabile. Giunto allo Sheraton, Bush pronuncia un bel discorso retorico e patriottico infarcito di spiritosaggini e battute (com’è nel suo stile) e si avvia poi subito all’uscita, malgrado il parere contrario della security. Alcuni colpi partono da un palazzo prospiciente. Il presidente è immediatamente portato all’ospedale, ma – come suggerisce il titolo - non ce la farà.
Le indagini, nel clamore mediatico e nel solito clima di caccia alle streghe, si dirigeranno quasi subito verso un cittadino siriano, apparentemente incolpevole.
E qui ci fermiamo per non togliere allo spettatore l’interesse per la sottotrama thrilling che si sviluppa nella seconda metà della pellicola.

Il lavoro che Range ha svolto nell’assemblaggio del suo finto documentario è di una precisione e di un’inventiva incredibili. Nella complessa ma estremamente fluida tessitura del film, confluiscono infatti immagini di repertorio, immagini girate ad hoc e immagini vere ma rielaborate digitalmente. Anche i formati sono variabili: riprese in DV, riprese ad Alta Definizione, riprese da telefonino, immagini volutamente sporcate per sembrare registrazioni di telecamere di sorveglianza. E poi autentici tocchi di genio come utilizzare il (vero) encomio funebre a Reagan di Dick Cheney, come ipotetico encomio funebre di Bush.
Insomma la massima cura e la massima precisione per una ricostruzione che, peraltro, non ha richiesto grandi effetti speciali (nella pellicola se ne vedono pochi e molto ben nascosti - e questo è un merito non piccolo) ed è costata relativamente poco: solo 3 milioni di euro, gran parte dei quali per l’acquisizione delle immagini di repertorio.
Un po’ diverso il discorso sul versante del contenuto. Se la polemica nei confronti del potere distorsivo dei media appare decisamente efficace – in conferenza stampa il regista ha raccontato un gustoso aneddoto a proposito: alla domanda polemica di un giornalista di Fox Tv che gli chiedeva se non credesse «di aver distorto la realtà», si è limitato a rispondere: «beh…è quello che fate voi ogni giorno.» - meno convincente è l’analisi globale dell’America del dopo 11 settembre.
Il film sembra infatti ignorare (o voler ignorare) le complesse implicazioni socio-economiche legate alla politica estera dell’amministrazione Bush, irriducibile unicamente a una dinamica di causa-effetto tra attentati terroristici e attacchi militari. Anche i personaggi di fantasia del film, interpretati da attori e fatti parlare al pubblico in lunghe interviste in stile documentario, appaiono schematici, appena sbozzati, poco approfonditi soprattutto nei loro risvolti sociali.
Insomma la pellicola rimane ad un livello superficiale, senza riuscire a mettere in luce le cause profonde della crisi che sta attraversando l’America attuale – come invece avviene, seppur indirettamente, nelle pellicole di Michel Moore o in quel bell’affresco corale, solo apparentemente ambientato negli anni ’60, che è Bobby di Emilio Estevez.
Si ha l’idea di essere di fronte a cose risapute seppur presentate in maniera decisamente originale – anche se, certo, si tratta di un’impressione tutt’europea dal momento che nel clima conformistico e di unità nazionale che si respira negli Stati Uniti dal 2001 (e che solo adesso si sta allentando) non si tratta di idee all’ordine del giorno (e lo dimostra infatti la fredda accoglienza negli States della pellicola, praticamente distribuita solo a New York e sulla West Coast).
La perfezione tecnica del film finisce quindi quasi per diventare freddezza, distanza dalla materia trattata, incapacità di andare a fondo, come sembrano quasi suggerire le continue e scenografiche riprese dall’alto della capitale dell’Illinois, che mostrano una sguardo discosto, da lontano, che non scende mai in profondità.
Pur con questi limiti rimane comunque lodevole l’impegno e la grande audacia nel tentare strade diverse per parlare dell’attualità anche più scottante. E rimane la vergogna di un fuoco di fila di giudizi perentori spesso pronunciati da persone che (come è il caso di Hillary Clinton che, prima ancora che la pellicola uscisse, l’ha definita «Spregevole, immorale, nauseante») non hanno mai visto il film.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

lunedì 5 marzo 2007

UNO SU DUE

Prima di morire Tiziano Terzani scrisse che la brutta malattia che aveva contratto era un baluardo contro la banalità del quotidiano, un’occasione per ripensare la propria vita sotto un’ottica diversa, alla luce di una nuova consapevolezza. Forse è da qui che prende le mosse Uno su Due il nuovo film di Eugenio Cappuccio, quarantaseienne regista romano, già assistente di Fellini sul set di pellicole come Ginger e Fred e La Voce della Luna.
Lorenzo Maggi (Fabio Volo) è un avvocato rampante, apparentemente sicuro di sé e ad un passo da quello che crede l’affare della propria vita. Ha una fidanzata, Silvia (Anita Caprioli), a cui non tiene molto e un socio, Paolo (Giuseppe Battiston), molto meno spavaldo e sicuro di lui. Un giorno, dopo una causa vinta in tribunale, uno svenimento improvviso. In ospedale i medici portano Lorenzo in oncologia: una biopsia svelerà se si tratta di cancro al cervello.
Tutto il film è imperniato sull’angosciosa attesa da parte del protagonista del responso finale, il cui esito ovviamente non sveliamo. Uno su due è infatti la percentuale di persone che guariscono da malattie neoplastiche, così come la quantità media di casi benigni.
Ma uno su due sta anche a indicare la scoperta - nel riesame complessivo della propria vita innescato dal confronto angoscioso con la morte - dell’altro sé, il sé rimosso da superficiali ambizioni di carriera e successo. Di fronte a questo sé sopito Lorenzo dovrà decidere quale dei due sé scegliere. Perché solo uno dei due può farcela. Vincerà quello autentico sotto la patina di superficialità ed arrivismo, o quello brillante e di successo, ma vuoto e insipido?
Cosi come in Volevo solo dormirle addosso Cappuccio ci presenta un personaggio nel momento fatidico della crisi, nel momento della catastrofe in cui convinzioni e valori precipitano e lasciano l’uomo nudo di fronte a sé stesso. Ma se nel film precedente la crisi era confinata su un piano etico-professionale qui è globale, a 360 gradi. E si dipana in un progressivo itinerario di consapevolezza, non solo interiore ma anche “geografico” – come lo spettatore scoprirà vedendo il film –, grazie all’incontro tra il protagonista e Giovanni (Ninetto Davoli), un ex-camionista malato di cancro, per il quale Lorenzo avrà l’opportunità di far qualcosa di molto importante. Qualcosa che gli permetterà davvero di spiccare il volo, in un senso a un tempo metaforico e reale.
Insomma, dopo i toni di commedia brillante di Volevo Solo dormirle addosso Cappuccio punta alto, scegli temi quasi tolstojani e un registro che vira dall’iniziale satira di costume al dramma e al road-movie. Non tutto è risolto ovviamente. Anche se assistito da un Fabio Volo in stato di (imperfetta) grazia, da una buona prova di Anita Caprioli e da uno straordinario Ninetto Davoli qui protagonista di una metamorfosi prodigiosa rispetto ai consueti ruoli urlati di borgotaro o pasoliniano ragazzo di vita, l’intento del regista si realizza solo in parte. I limiti di un linguaggio troppo spesso virtuosistico che non lesina tutti i vezzi possibili - dalle inquadrature deformate, ai ralenti all’uso di musiche inquietanti - sono sotto gli occhi di tutti. Ma nondimeno il film riesce a raggiungere spesso un effetto di sobria intensità.
Pur con tutti i suoi difetti allora (primo fra tutti un finale pomposo e retorico) il film di Cappuccio è da promuovere senza esitazioni. Principalmente per il coraggio nella scelta di un argomento che non ha alcun appeal e che difficilmente viene affrontato dal cinema italiano: il tema della malattia o ancora meglio in questo caso, della percezione della malattia, del vissuto angoscioso di chi è atteso da un destino di sofferenza. E poi, per l’esibita volontà di fare un cinema che, pur con interpreti di richiamo, non senta il bisogno di rassicurare o risultare gradevole al pubblico. Se questo è il prodotto medio che il cinema italiano può produrre in questo periodo, viva il cinema italiano.

(Articolo scritto per la rivista Fusi Orari, www.fusiorari.org).

domenica 14 gennaio 2007

BOBBY

4 giugno 1968. Los Angeles. All’Hotel Ambassador lo staff del senatore Robert Kennedy aspetta con impazienza i risultati delle primarie, in cui si sfidano il fratello del presidente statunitense assassinato appena 5 anni prima a Dallas e Mc Cathy. In palio c’è la possibilità di correre alla Casa Bianca. Attorno, per i corridoi e le stanze dell’albergo, si muove una miriade di personaggi. Dal vecchio portiere cui è recentemente morta la moglie (Antony Hopkins) che sfida a scacchi un saggio collega (Harry Belafonte), al direttore dell’albergo (William H. Macy) che licenzia con orgoglio un dirigente razzista e carognesco (Christian Slater) e tradisce la moglie (un’inedita Sharon Stone, in versione parrucchiera dei divi) con una giovane centralinista (Heather Graham). Dalla cantante alcolizzata e sul viale del tramonto (Demi Moore), al pacifico broker (Martin Sheen) che combatte con la superficialità della moglie (Helen Hunt), collezionista di opere di Pop-Art. E poi i due giovani sostenitori dei democratici che prendono Lsd e dimenticano l’impegno politico, la ragazza che sposa un giovane amico solo per salvarlo dalla chiamata dello Zio Sam, ed il giovane attivista nero che vede nell’ascesa del candidato democratico una speranza per gli afroamericani. E ancora il cameriere messicano che rinuncia alla partita di baseball dei sogni per un caso di quotidiano sfruttamento, il cuoco di colore ormai disilluso dall’America che ha ucciso Martin Luther King e la giornalista cecoslovacca che nessuno prende in considerazione perché proveniente da un paese considerato “comunista”, malgrado la svolta democratica di Dubcek.


Nel raccontare le ultime ore di vita di Robert Kennedy, Emilio Esteves, figlio d’arte (suo padre è Martin Sheen) sceglie sapientemente di non mostrare mai il vero protagonista della vicenda, se non attraverso immagini di repertorio. Le parole dei discorsi di Bobby, che rimbalzano dagli schermi televisivi accessi nelle stanze dell’albergo, fanno da sottofondo a un affresco corale su un’America che insieme al giovane senatore democratico sta perdendo anche la propria innocenza. Un affresco alla Altman, che strizza l’occhio a “Nashville” (anche lì il film si chiudeva con colpi di pistola verso un candidato, seppur di segno radicalmente opposto). Ma tuttavia senza l’amarezza, il disincanto, la cruda ironia del maestro. Dal tono invece elegiaco, malinconico per ciò che avrebbe potuto essere, non è stato, e non sarà più.

Dallo schermo riaffiorano allora le angosce, le frustrazioni, le nevrosi (ma anche i lati positivi) di una società che sta sprofondando verso il baratro del Vietnam, del Watergate e di una delle più grandi crisi sociali e politiche che ha mai dovuto affrontare.

Non mancano ovviamente i riferimenti ai giorni nostri: dalla vicenda del messicano Jose che allude al muro della vergogna e alle leggi anti-immigrazione del governo Bush all’ovvio parallelo tra guerra del Vietnam e guerra in Iraq. L’America traballante di ieri, sembra dire il film, assomiglia terribilmente a quella di oggi, incamminatasi, come i soldati nel finale di “Full Metal Jacket”, verso un inferno terreno tutt’altro che metaforico.

Bobby appartiene quindi a un filone di film d’impegno civile, di simpatie squisitamente democratiche, che già in passato ha prodotto pellicole come “Tutti gli uomini del presidente” o “Philadelphia” e in tempi più recenti “Good night and good luck” o “Syriana”. Non rinuncia completamente all’idea del sogno americano (si veda la tirata del personaggio interpretato da Laurence Fishburne al giovane messicano Josè, che tira in ballo nientemeno che Rè Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda), ma sa anche dipingere i sogni spezzati di un epoca, in maniera nient’affatto trionfale. Il linguaggio è sonoramente hollywoodiano ma il finale è tutt’altro che retorico - o perlomeno ben lontano dalla retorica solenne a cui il cinema americano corrente ci ha abituato.

Forse molti cinefili storceranno il naso di fronte a questa pellicola così bien fait, dal cast stellare e dall’impaginazione abbastanza tradizionale – riferimenti ad Altman e al Thomas Paul Anderson di “Magnolia” a parte. Ma l’America di Bush ha quantomai bisogno di conoscere le proprie radici, le origini della crisi che l’hanno portato alla situazione attuale, anche attraverso un robusto ed edificante film popolare come “Bobby”. Per non ripetere gli errori del passato.

lunedì 8 gennaio 2007

L' ARIA SALATA

Fabio è un ragazzo sulla trentina che lavora in carcere al percorso di reinserimento dei detenuti. Sin dalle prime sequenze lo vediamo correre nervosamente per le vie di una Roma, livida e piovosa. È un leitmotiv che si ripeterà per tutto il film. Una corsa frenetica che simboleggia il desiderio di libertà di chi lavora in un ambiente che rappresenta l’assenza di libertà per eccellenza.

Ma dietro la corsa di Fabio c’è anche qualcos’altro. L’esorcismo di un’altra assenza, un trauma più profondo. Fabio è ligio e dinamico sul lavoro, ha le sue idee, non si lascia corrompere dall’ambiente in cui ha deciso di lavorare, sacrificando le ambizioni ad una carriera che la sua laurea gli consentirebbe.
Ma un giorno il trauma rimosso gli si presenta davanti. Sulla scheda d’accompagnamento c’è scritto Luigi Sparti e Fabio sa di aver dinanzi il padre che sparì un giorno di casa, condannato a una pena pluridecennale per omicidio. Come comportarsi con il vecchio padre che neppure lo riconosce? Rinfacciargli la lunga assenza, il disinteresse per i figli? Oppure evitarlo? Da questo interrogativo prende le mosse l’ Aria Salata il film d’esordio di Alessandro Angelini, in uscita nelle sale il 5 gennaio, ma passato, con un discreto successo di critica, dalla Festa del cinema di Roma. Nelle intenzioni originarie del giovane regista, documentarista di grande talento, il lungometraggio avrebbe dovuto essere semplicemente un affresco della realtà carceraria ed in particolare di coloro che scontano «la condanna stando fuori dal carcere», vale a dire i familiari dei detenuti, la cui vita è sconvolta dalla reclusione di un parente. Un’intenzione che nasceva nel regista dal periodo di volontariato prestato presso il carcere di Rebibbia. Un proposito che, tuttavia, si è progressivamente trasformato in fase di sceneggiatura, evolvendosi in un’amara e disperata riflessione sul tema della paternità e su quello di una giustizia che non deve rappresentare mai una forma di oppressione dell’individuo, ma concedere invece una possibilità di riscatto, una seconda opportunità.

Da questo nucleo si dipana allora il tortuoso itinerario di ricostruzione di un sentimento paterno e filiale da parte dei due protagonisti, splendidamente interpretati da Giorgio Pasotti e da uno strepitoso Giorgio Colangeli - attore alla prima vera esperienza sul grande schermo, ma già molto attivo in teatro e tv e che, per quest’interpretazione, sensibilmente attenta alle sfumature e ai più minimi gesti rivelatori, è stato giustamente premiato a Roma.

Un film dunque che, come si evince da questa breve sinossi, punta alto, scegliendo temi e realtà forti, lontani dalle “vanzinate” e dal “muccinismo” che dominano l’asfittico clima del cinema italiano. Anche il tono e il linguaggio scelto, scabro, semplice, essenzializzato, disperato ma senza mai cadere nel melodrammatico, più strozzato che gridato, concorrono ad avvicinare questo esordio ai film di Garrone, Marra, Munzi, vale a dire alle migliori promesse del nuovo cinema italiano. O anche a Calopresti, di cui Angelini è stato assistente, e di cui nel finale sembra quasi, forse involontariamente, rievocare Preferisco il rumore del mare. La macchina da presa segue i personaggi con frequenti primi piani, con teleobbiettivi, come a isolarne il dramma profondo, a metterlo in rilievo rispetto alla realtà sociale che pur l’ha prodotto. Ad acuire il senso di oppressione, di angoscia contribuisce anche un azzeccatissima fotografia grigia, sbiadita, opaca che accentua l’atmosfera di sorda disperazione della vicenda. Non ancora un capolavoro certo – per qualche ovvio cedimento, per qualche piccola tara nella sceneggiatura - ma tuttavia un validissimo esordio. Impreziosito dall’ottima prova di un cast (non solo Pasotti e Colangeli ma anche una superba Michela Cescon, qui nella parte della sorella del protagonista, sorta di naturale contraltare al suo idealismo e alla sua fragilità) che il giovane Angelini ha dimostrato di sapere dirigere con raffinata abilità.


mercoledì 1 novembre 2006

BABEL

L’incomunicabilità nell’era della globalizzazione e molto altro

A tre anni di distanza da 21 Grammi torna Alejandro Gonzales Iñarritu, con una pellicola, Babel che ha ottenuto nientemeno che il premio per la regia all’ultimo film di Cannes. Una pellicola a un tempo più semplice e complessa delle precedenti.
Più semplice perché un po’ meno giocata sulle strutture ad incastri spazio-temporali e sulle rotture della continuità narrativa di Amores Perros e 21 Grammi. Ma più complessa per il più ampio sforzo produttivo, dovuto all’articolazione del film in tre storie che si svolgono addirittura in tre continenti diversi: una sulla frontiera rovente tra Messico e Usa, una in Marocco e l’ultima addirittura in Giappone. Tre plot legati da una serie di nessi diegetici che emergono lentamente nel corso del film.
Assistiamo allora al tentato omicidio di una donna americana giunta in vacanza in Marocco con il marito, e contemporaneamente, alla sorte poco invidiabile della badante messicana cui ha affidato i pargoli ed ancora al cupo dolore di una ragazzina giapponese sordomuta che ha di recente perso la madre.
L’obbiettivo di Iñarritu (e del suo fedele sceneggiatore Guillermo Arriaga) era probabilmente quello di raccontare l’incomunicabilità nell’epoca della globalizzazione – di qui il titolo Babel. Incomunicabilità tra stati e culture: l’America claustrofiliaca che erige muri per tenere lontani i milioni di migranti messicani in cerca di lavoro, le difficoltà di comunicazione tra il mondo occidentale e quello arabo; ma anche tra esseri umani: tra marito e moglie (incapaci di parlarsi dopo la morte di uno dei figli) o tra padre e figlia come nella vicenda giapponese, dove la sordità della giovane protagonista si fa simbolo evidente di un’assenza di comunicazione più generalizzata. Tuttavia questo, che costituisce il nucleo tematico più appariscente del film, rimane solo a un livello di superfice. A un livello più profondo ritroviamo il solito tema della coppia Inarritu-Arriaga: quel senso di colpa legato ad un trauma rimosso che riemerge piano piano, incalzato dagli eventi drammatici (e imperscrutabilmente fatali) verso la necessaria catarsi finale. E così il dialogo di chiarimento finale tra Brad Pitt e la moglie, malgrado la cornice “globalizzante”, assomiglia moltissimo alla riconciliazione finale tra il personaggio interpretato da Benicio del Toro e la consorte in 21 Grammi, o al “messaggio in segreteria” dell’ ex-guerriglero nell’episodio finale di Amores Perros .

Il film, che parrebbe una riflessione sulla globalizzazione è invece, esattamente come 21 Grammi, una riflessione sui traumi inespressi, sui i sensi di colpi rimossi, sull’incapacità degli uomini di relazionarsi e di portare alla luce le proprie angosce profonde, a qualunque latitudine. Insomma poca politica e tanto dolore esistenziale.
Ma fino ad un certo punto. Perchè la descrizione della “civilissima barbarie” che si consuma ogni giorno lungo i confini tra Stati Uniti e Messico, nei deserti dell’Arizona, della California e del Texas, sulla frontiera più calda del pianeta – per inciso la parte più sincera e convincente del film – rappresenta l’atto d’accusa di un messicano deluso dal ricco paese vicino che l’ha accolto tra le sue braccia, ma respinge invece i suoi connazionali meno fortunati.

Per il resto il film conferma i meriti e limiti di Iñarritu. Da una parte la grande maestria nell’impaginare i film, nell’incastrare le storie – anche se qui la destrutturazione, più “geografica” che narrativa, suona a volte un po’ artefatta; l’abilità nel dirigere gli attori – quanto mai assortiti tra semiprofessionisti e stelle da blockbuster (non solo Pitt e la Blanchett, ma anche il divo latino Garcia Bernal); e il virtuosismo di alcune sequenze – meravigliosa quella che racconta la serata in discoteca della protagonista giapponese, con le continue soggettive silenziose che ne sottolineano l’estraniamento. Dall’altra parte riemergono lo stesso strisciante manierismo e gli stessi eccessi melodrammatici già riscontrati in 21 Grammi.
Insomma, malgrado le buone intenzioni, Iñarritu non sembra più essere in grado di tornare al felice equilibrio dell’opera prima, nella quale il suo indiscutibile talento visivo, la sapiente costruzione drammaturgica dello script di Arriaga e la descrizione sempre asciutta e mai compiaciuta della violenza e delle ingiustizie sociali della capitale messicana avevano trovato una sintesi straordinariamente felice.

Un’ultima (pessima) nota sul doppiaggio della versione italiana. Doppiaggio che vede tutti i personaggi ispanici del film esprimersi con un improbabile accento a metà strada tra un veneto da recita parrocchiale e la parlata del gabibbo. Ma quand’è che anche in Italia qualche distributore “oserà” ciò che è prassi comune in tutti i paesi del mondo (tranne che nella post-autarchica Italia): mandare nelle sale i film in lingua originale con i sottotitoli?

giovedì 10 novembre 2005

LA TIGRE E LA NEVE

Meriti e limiti del nuovo film di Roberto Benigni

Roberto Benigni è un artista coraggioso. Un artista che non esita spesso a lanciarsi in sfide rischiose e delicate quando ne senta l’esigenza. Anni fa’ riuscì con La vita è bella nell’intento, apparentemente impossibile, di far sorridere e commuovere allo stesso tempo sulla tragedia dell’ Olocausto.

Ne La Tigre e la Neve ha scelto invece di intraprendere la rischiosissima strada di un istant-movie sull’ Iraq. Un istant-movie sui generis, in cui la tragedia irachena è rivissuta all’interno dell’universo poetico dell’autore toscano.

La vicenda è semplice. Attilio (Roberto Benigni) è un poeta che ogni notte sogna Vittoria (Nicoletta Braschi), la donna dei suoi desideri. Quando quest’ultima, recatasi in Iraq insieme al poeta e amico comune Fuad (Jean Reno) per scriverne la biografia, rimarrà ferita ed entrerà in coma, Attilio non esiterà a raggiungerla e a fare di tutto per guarirla.

Di La Tigre e la Neve bisogna innanzitutto lodare la coerenza con la poetica del suo autore. Film dopo film (indipendentemente dalla loro riuscita o meno) Benigni si è creato un universo poetico proprio, preciso e coerente.

Ritornano anche in quest’ultima fatica quindi i suoi grandi temi: la gratuità del gesto (sacrificio) d’amore, l’innocenza e/o ingenuità contrapposta all’orrore, la fantasia come via di fuga dalla crudeltà del mondo.

Però non tutto funziona come voluto. La tragedia irachena rimane troppo sullo sfondo, quasi solo pretesto per il nucleo drammatico della vicenda.

Se nella Vita è bella l’innesto tra il nucleo favolistico della trama e l’orrore della Shoah avveniva senza strappi, a causa delle dimensione mitica che la tragedia ebraica ha assunto ormai nell’inconscio collettivo occidentale –una sorta d’archetipo di ogni tragedia della Storia- qui invece il riferimento ad una realtà di scottante attualità come la vicenda irachena rende tutto più problematico. Il rischio di una trattazione superficiale, o addirittura “indistinta” dell’Iraq (in cui appunto lo sfondo può tranquillamente essere cambiato senza intaccare il meccanismo drammatico del film) non è stato evitato e la scelta dell’Iraq lascia spazio a riserve o dubbi. Era necessario ambientare la vicenda nel paese arabo e darne quest’immagine in parte mistificata?

Perché di perplessità sull’immagine dell’Iraq che il film offre, nello spettatore ne rimangono molte. L’orrore dello bombe è quasi inesistente, il protagonista può attraversare 100 km di deserto con un pullman senza essere fermato da nessuno, Fuad vive in una casa che sembra un patio dell’Alahmbra…Tutte stonature in un film che voglia parlare di argomenti d’attualità, ma scelte ammissibilissime in una favola a-stratta sull’orrore della guerra e sul valore della poesia e dell’amore come antidoto a violenza e brutalità.

E’ in questo contrasto, in questa natura ibrida che risiede a nostro parere la debolezza principale del film. A ciò si aggiunge anche una minore - rispetto al passato- felicità di invenzione a livello drammaturgico in diversi momenti della vicenda. Ad esempio nella prima parte dove i tentativi di conquista di Vittoria da parte di Attilio (e l’annesso gioco di equivoci), sembrano la brutta copia della lunga parte iniziale de La Vita è bella. Della scarsa consistenza di tutta questa prima parte ne deve essere stato conscio peraltro anche lo stesso Benigni, dal momento che nell’intera prima mezz’ora lo vediamo saltare, agitarsi, pronunciare discorsi alambiccati, quasi dovesse riempire con una sua presenza perennemente sopra le righe (a tratti ai limiti dell’autoparodia) un vuoto difficilmente eludibile.

Ed eccessiva ci pare anche l’insistita naivetè del personaggio, sempre fuori dal mondo e preso soltanto dalla sue fantasticherie poetiche. Detto questo, il film ha comunque qua è là delle buone intuizioni e degli sprazzi di autentica poesia (ne è un esempio la bellissima sequenza riguardante il destino di Fuad). Ma rimane comunque non risolto. Rimane un film estremamente sincero e sentito che lascia tuttavia un senso di non compiutezza e disorientamento.

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