Due ingressi al prezzo di uno, ma con una condizione: essere «nuovi torinesi» di lingua araba. È la campagna del Museo Egizio, molto innovativa e al momento senza esempi analoghi in Europa o nel mondo, che con lo slogan «Fortunato chi parla arabo» invita le 33.545 persone di lingua araba residenti nella Provincia di Torino - di cui 24.114 solo nel capoluogo. Sono numeri rilevanti, che tuttavia non serviranno com’è ovvio a impennare il già altissimo numero di visitatori.

Non è un progetto «commerciale», ma ha una valenza squisitamente culturale: ossia, come spiega il direttore, Christian Greco, quella di una nuova forma di inclusione sociale, in una città che «ha la fortuna di custodire una collezione importantissima, e non può dimenticare il Paese da cui questa proviene». I rapporti ad alto livello con l’Egitto, che riguardano gli studiosi e gli archeologi, sono stati sempre, com’è ovvio, al centro dell’attività del Museo. Ora questa «diplomazia culturale» prova a lanciare una sfida più difficile, direttamente nella nuova società multietnica.

A Torino e provincia vivono 4700 egiziani, moltissimi dei quali, probabilmente, dell’Egizio non sanno nulla, benché sia un luogo dove si dispiega la loro storia e dove si articola una parte non certo secondaria della loro tradizione culturale. Scoprirla in tutta la sua grandezza non è solo un’acquisizione di conoscenza, forse anche un motivo di orgoglio, ma una possibilità nuova di dialogo, comprensione, confronto. «Nessuna di queste istituzioni esiste per diritto divino - dice ancora Greco - ma perché è interconnessa col territorio. Il Museo deve guardare a tutti». Ovvero, non solo agli egiziani.

L’antica civiltà del Nilo ha avuto scambi e influenze con tutto il Nord Africa e in generale con quello che è diventato poi il mondo arabo. Scoprire l’Egizio è l’occasione per capire meglio, da parte delle varie comunità sul territorio, la propria storia pre-islamica. Potrebbe essere un antidoto alle tentazioni fondamentaliste, qualora ce ne siano, ma soprattutto è la possibilità di sperimentare «nella loro lingua - sono ancora parola di Greco, che l’Egizio è anche casa loro». Non è per sempre. Si tratta di un promozione, che ha una durata nel tempo: da domani, lunedì 19, fino al 31 marzo 2017.

La domanda è ovviamente come ottenere tutto ciò. I canali attraverso cui far giungere l’informazione li ha trovati Etnocom, agenzia specializzata in comunicazione etnica che ha «mappato» il territorio individuando le zone su cui lavorare e i luoghi di incontro delle comunità. Non ci saranno solo manifesti - come quello che si vede in questa pagina, in arabo e in italiano - o comunicazione web, ma anche un lavoro diretto sul territorio di «ambasciatori» formati dal Museo in grado di spiegare ai connazionali la portata dell’iniziativa, fra quartieri di residenza, moschee, mercati rionali, negozi e ristoranti. Ci saranno manifesti nelle edicole delle zone a maggior concentrazione di residenti di lingua araba, e altrettanto si farà con gli autobus, cui sono destinati 900 cartelli.

Il Museo non si limita ad «aprirsi» all’eterno, ma va a cercare, quasi uno per uno, i suoi possibili interlocutori. Come ci ricorda il direttore, è questa una sua priorità (la settimana scorsa ha ospitato una visita di senzatetto, con l’arcivescovo Nosiglia) che tecnicamente viene definita «visiting visitors»: ossia capire chi sono i visitatori, e immaginare quelli potenziali. È in funzione anche un altro progetto che ha per destinatarie le donne migranti di lingua araba iscritte a un’associazione, il Mic (Mondi in città, sostenuta in questo caso dalla Compagnia di San Paolo): un corso di formazione - tenuto dai curatori Alessia Fassone e Paolo Del Vesco -, per fornire le nozioni di base che possano farne delle testimoni dell’Egizio presso i loro concittadini.

Funzionerà? «In tutti i casi, è una forma di “restituzione” - ci dice la presidente Evelina Christillin -. Abbiamo sempre proposto testi di sala e audioguide in arabo, nel rispetto del Paese di provenienza della collezione, e da questa idea innovativa e apprezzata anche da altri musei europei è nato questo progetto. Speriamo in una risposta positiva». La comunicazione in arabo sarà stato così il primo capitolo di una lunga storia. «C’è anche la prospettiva di rivolgerci ad altre etnie numericamente importanti sul nostro territorio». Quella di lingua araba ha un significato particolare. Ma il passo da questa esperienza a, poniamo, un «fortunato chi parla cinese», scritto in bei caratteri mandarini, non è poi così lungo.

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