C’è una «Torino nera» che è ormai storia. Quella della rapida ascesa e della rovinosa caduta del racket siculo-calabrese, che insanguinò le strade della metropoli tra gli anni Settanta e Novanta, per poi spegnersi infine all’inizio del nuovo millennio, culminata con l’agguato mortale al procuratore Bruno Caccia, il primo (e unico) magistrato ucciso dalla ’ndrangheta al Nord, nel giugno del 1983. Non che il racket non esista più. Ma ha semplicemente cambiato forma. L’eco delle sparatorie, dei night, dei rapimenti e delle estorsioni, delle rapine alle banche e dei narcos in affari con gente del calibro di Pablo Escobar, è rimasto però nella memoria collettiva. Nel senso che ha superato la prova del tempo, che in genere condanna la cronaca nera all’oblio, e lo stretto confine del crimine ordinario.

IL ROMANZO

Tutto ciò grazie anche a Fruttero & Lucentini che, soprattutto nel romanzo la «Donna della domenica», avevano descritto in modo sorprendentemente attuale i vizi privati e le pubbliche virtù sabaude, descrivendo un delitto nato nella Torino borghese. E in quella eterna lotta tra bene e male, che sono spesso confusi, i due scrittori avevano messo a fuoco la figura di un investigatore, il commissario Santamaria, ricalcato sulla figura del commissario Giuseppe Montesano, a lungo capo della mobile di Torino - e in seguito questore anche a Palermo, al fianco di Falcone e Borsellino - che già possedeva, nel suo modo di vivere il ruolo, uno spirito naturalmente letterario. Chi lo ha conosciuto, lo ricorda con quel suo sorriso indecifrabile, segno di tensione ma anche no, che lo accompagnò per tutta la vita, non solo di poliziotto, ma soprattutto di uomo.

IL PERSONAGGIO

Un uomo libero e trasparente, un servitore dello Stato a cui donò tutte le sue energie. Iniziò il suo percorso in una Torino ferita dal terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima Linea, con una lunga teoria di uccisi o di feriti in nome di folli ideologie. Disse a un cronista, preoccupato per i rischi che lui correva ogni giorno: «È il mio mestiere. D’altra parte se non rischio, non è possibile liberare la gente da certe persone pericolose. Ma non sono questi i pericoli che più mi spaventano. Difficilmente un assassino spara contro un poliziotto, se non viene provocato. Quindi basta agire con tatto e ci si può salvare; temo invece gli errori che posso commettere nei confronti di una persona che ritengo colpevole ed invece è innocente: quando si svolgono delle indagini bisogna trarre delle conclusioni, fermare gli indiziati, scoprire il colpevole. E sono consapevole del fatto che in certi casi fermare una persona innocente significa rovinarla per tutta la vita». Quasi un testamento, la prova di un rigore morale che non è forma, ma sostanza.

IL DIARIO

Stasera (martedì) alle 18, nella sala musica del Circolo dei lettori, sua moglie, Adriana De Lullo, con i co-autori Andrea Biscàro e Milo Julini, presenteranno il libro «Strada facendo…ricordando il commissario Montesano» (Daniela Piazza editore), con la collaborazione dell’ispettore Rossana Morra. Si tratta di una specie di diario di oltre trent’anni di servizio, a volte drammatico, a volte duro, a volte venato di ironia e di humour. Quando Marcello Mastroianni interpretò, nel film tratto dal romanzo, il commissario Santamaria, quelli che lo conoscevano ne rimasero stregati. Mastroianni aveva assimilato i suoi modi, i suoi tic, le espressioni, il carattere volubile, e semmai anche i difetti, oltreché che i pregi. I vecchi della mobile erano stupiti dalle sue intuizioni, anche contro la logica, contro le apparenze, contro l’ovvio e il troppo facile.

Ci sarà un intervento del questore di oggi, Salvatore Longo. Lui lo conosceva bene, Montesano. Idealmente, ci saranno i suoi uomini che non ci sono più, Aldo Faraoni e Piero Sassi, suoi successori alla squadra mobile.

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