Io speriamo che me la cavo è un libro scritto dal maestro elementare Marcello D'Orta nella forma di una raccolta di sessanta temi scritti da ragazzi di una scuola elementare della città di Arzano in provincia di Napoli che raccontano con innocenza, umorismo, dialettismi (e infiniti errori grammaticali, appositamente non corretti) storie di vita quotidiana di bambini che vedono con i loro occhi fenomeni come la camorra, il contrabbando, la prostituzione, gravidanze inaspettate ecc.
Affresco fin troppo reale di un meridione lontano dalla modernità e che si sente ai margini di uno sviluppo al tempo stesso così vicino e cosi lontano, ha come eroi, secondo il critico Riccardo Esposito, proprio quei tanti cittadini del sud che coraggiosamente cercano di vivere la loro vita in modo onesto e dignitoso, non cedendo al richiamo dei soldi facili o delle raccomandazioni della criminalità organizzata.
In realtà, come dichiarato dallo stesso autore tempo dopo, i temi sono frutto di invenzione[citazione necessaria] ma sufficientemente plausibili per la realtà in cui sono ambientati. Ciò nonostante questo libro, anomalo nel suo genere, ha venduto più di un milione di copie diventando un bestseller.
Il titolo del libro è dato dalla frase con cui un alunno, il più scalmanato di tutti, (che alla fine del libro ha una sorta di "conversione dell'innominato" verso lo studio e il senso del dovere) concluse il suo tema sulla parabola preferita di Gesù ossia l'Apocalisse, ribattezzata da quello studente con il termine "la fine del mondo".
«Quale parabola preferisci. Svolgimento. Io, la parabola che preferisco è la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. Dio separerà le capre dai pastori, una a destra e una a sinistra. Al centro quelli che andranno in purgatorio, saranno più di mille migliardi! Più dei cinesi! E Dio avrà tre porte: una grandissima, che è l'inferno; una media, che è il purgatorio; e una strettissima, che è il paradiso. Poi Dio dirà: "Fate silenzio tutti quanti!". E poi li dividerà. A uno qua e a un'altro là. Qualcuno che vuole fare il furbo vuole mettersi di qua, ma Dio lo vede e gli dice: "Uè, addò vai!". Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà, Corzano si farà in mille pezzi, i buoni rideranno e i cattivi piangeranno. Quelli del purgatorio un po' ridono e un po' piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle. Io, speriamo che me la cavo. »
(ultimo tema letto dal protagonista, sul treno per il Nord)
Liberamente tratto dal best seller di Marcello D'Orta, Io speriamo che me la cavo. Il film è ambientato nel paesino di Corzano: una storpiatura del nome di un paese davvero esistente, Arzano. Il nome fu modificato per evitare problemi giudiziari, dato che il comune viene rappresentato con case cadenti, immondizia in ogni dove e strade completamente diroccate. Il film, in realtà, è stato girato soprattutto nel Borgo Antico di Taranto e alcune scene a Corato, ma non mancano riprese realmente effettuate nella provincia di Napoli, come la scena dell'arresto di un alunno da parte dei carabinieri, girata nei pressi di una villa vesuviana di San Giorgio a Cremano (la Villa Pignatelli di Montecalvo), o ancora nella Reggia di Caserta.