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    Articolo sul Calcetto  (4616 Click)
    Di Andrea Monda 2018 - Totalmente condivisibile
    29/05/2020
    nanus_10
    Calcio
     
    La grazia con cui, senza bisogno di vedere, apre uno scenario inedito e cerca/chiama qualcuno nel grande spazio vuoto sapendo che vuoto non è.. tutto questo è il calcio. Oggi è uscito un mio articolo sul Foglio, un elogio "politico" del calcio contro il calcetto, preso a simbolo del declino del nostro paese, per capire come siamo passati da Moro e De Mita a Salvini e Di Maio... con piacere vi allego la mia extended version: La parabola italiana degli ultimi 30 anni spiegata con il calcetto – di Andrea Monda In questa estate italiana orfana dei Mondiali di calcio non si può fare altro che pensare di continuo al calcio: quando viene a mancare qualcuno è inevitabile ricordarlo con pungente nostalgia e lasciarsi andare al flusso dei ricordi. E così tra un pensiero e l'altro, si elabora il lutto sapendo che quel mondo perduto è impossibile che ritorni. Al di là del Mondiale orbo dell'Italia c'è da dire che il mondo del calcio è ormai cambiato e forse in crisi di identità, una crisi che risale a più di trenta anni fa. La storia ci insegna che quando si arriva sulla vetta del successo, è proprio in quel momento che comincia il declino. I primi segnali del crollo avvengono dopo i fasti del mondiale vinto in Spagna nel 1982 quando in Italia comincia a diffondersi a macchia d'olio il futsal, più noto con il nome di calcio a cinque o, meglio ancora, di calcetto. Tutti sanno di cosa sto parlando: una versione “mini” del calcio con cinque giocatori e non undici, un campo e una porta molto più piccoli di quelli del calcio, così come il pallone e il tempo della durata della partita. Chi giocava a calcio e ora gioca a calcetto sa che le differenze non sono solo nelle dimensioni e nelle quantità, ma esistono diversità “qualitative” che rivelano due essenze, quella del calcio e del calcetto, inconciliabili. Prima di analizzarle è il caso di sottolineare la coincidenza temporale: la fine degli anni '80 come momento di “rottura” e di conversione dal calcio al calcetto. In quegli anni e poi progressivamente sempre di più, abbiamo assistito alla trasformazione dei grandi campi di calcio (in erba o in terra per lo più) in tanti piccoli campetti in erba sintetica (da un campo di calcio puoi ricavare anche tre o quattro campetti), un po' come è avvenuto negli anni successivi per i grandi cinema che hanno ceduto il passo alle multisala. Questa coincidenza non è casuale ma ha un forte connotato simbolico. Nel 1989 crolla il muro di Berlino e il mondo cambia, con la fine della guerra fredda crollano anche le ideologie e in Italia la spinta sociale si riversa tutta nel privato, il “pubblico” perde terreno, le aggregazioni e il senso dell'appartenenza tramontano e trionfa il senso dell'identità e la visione più pragmatica di un individualismo che è sempre esistito ma che ora diventa sempre più spudorato. Questa trasformazione socio-politica è ben rappresentata dall'evoluzione del calcio in calcetto. Dal punto di vista pragmatico sono chiare le ragioni del successo del calcetto: organizzare una partitella di un'ora per dieci persone è molto più semplice di una partita di novanta minuti per ventidue giocatori. Pragmatismo, semplificazione... le analogie con la parabola della politica italiana è fin troppo evidente. Sono anni che si avverte il vuoto, l'assenza della politica dalla scena pubblica, spesso con una pungente nostalgia, perchè l'attuale spettacolo della politica ricorda tanto una caricatura, un surrogato per nulla soddisfacente. Sì perchè i due fenomeni possono assomigliarsi ma l'essenza del calcetto è opposta a quella del calcio. Nel calcetto la visione di gioco non serve. I campioni del calcio sono i registi, i fantasisti, quelli che indossano la maglia n.10. Non c'è la maglia n.10 nel calcio a cinque. E qui una parentesi sul fenomeno, emerso proprio in quegli anni e altamente simbolico, della scomparsa dei numeri tradizionali, legati ai ruoli, a favore delle magliette con i numeri scelti senza alcun criterio e soprattutto con stampato sopra il nome del giocatore. Chi giocava con il numero due era il terzino destro, l'anonimo terzino destro. Il sei era il libero e il sette l'ala destra, a prescindere se si chiamava Domenghini o Causio o Bruno Conti; non lo sapevi, contava la squadra non il singolo giocatore. Fino all'avvento negli anni '80 di Craxi, che cambiò le regole del gioco elettorale, per tutta la Prima Repubblica i manifesti elettorali erano senza volti e senza nomi: il simbolo del partito era più che sufficiente, e non importava se dietro lo scudo crociato c'era il volto di Moro o di Fanfani, la squadra contava non il goleador o, per dirla con Papa Francesco: "Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma”. Nel calcetto i ruoli saltano, tutti sanno fare tutto, non ha più senso una visione “organica” della società né un'attenta valorizzazione delle diversità. In questo “tutto indistinto” non c'è spazio quindi per la fantasia creatrice di un regista che con la sua visione di gioco fa la differenza, per il semplice motivo che non c'è proprio spazio fisico, il campo è piccolo. Le grandi narrazioni delle ideologie evaporano a favore del “privato”, dei piccoli spazi asfittici in cui si deve procedere con brevi e rapidissimi passaggi. I tempi lenti dell'elaborazione politica che connotavano la prima repubblica, Aldo Moro che parla per ore e ore ai congressi democristiani, lasciano il campo agli slogan più efficaci proprio perchè più brevi: Craxi, Berlusconi, fino ai tweet di Salvini, tutti ottimi giocatori di calcetto. Nessuna visione di gioco, nessuna lungimiranza, ma grande sforzo nel breve periodo e negli spazi stretti. Non esiste, nel calcetto, il lancio lungo, così decisivo nel calcio, non può esserci date le dimensioni del campo, di conseguenza la palla non si alza mai da terra, il gioco è tutto rasoterra. Palla bassa e correre correre, continuamente avanti e indietro, quasi fosse una versione di basket con i piedi. La palla deve essere tenuta bassa, così come nella competizione politica, chiusa la parentesi della guerra fredda, sono andate scomparendo le grandi “visioni” o le ampie “narrazioni” del paese, nessun taglio storico, nessun altro profilo o profondo respiro, tutto è giocato in un lavoro di interdizione continua al centro del campo. Passaggi fitti, rapidi, dove conta soprattutto la prestanza fisica per spingere l'azione, tutta giocata sull'abilità tecnica del controllo di palla, fin sotto la porta avversaria e poi tirare, non di precisione, la porta è troppo piccola, ma di potenza. Il tiro di punta è il tiro del calcetto, quel tiro che quando cominciavi a giocare a calcio ti insegnavano che era sempre da evitare, era il tiro “volgare”, di chi non sa giocare, il tiro-scorciatoia di chi è privo di fantasia. La puntata forte, incontrollata, dritta al punto, senza la finezza del tiro a effetto, del colpo a girare, a rientrare, o l'azzardo del pallonetto del tutto impensabile nello spazio stretto del calcetto. E qui si potrebbe aprire una parentesi sul progressivo involgarimento dello scontro politico nella nostra Italia dove è molto facile trovare campi e campioni di calcetto e quasi impossibile scovare chi ancora gioca a calcio. Non è un caso che negli ultimi anni sia esploso anche il fenomeno di “riflusso” del calciotto, senz'altro diverso dal calcetto ma solo un pallido epigone di ciò che era il calcio con la sua epica; ma forse questa del calciotto è solo nostalgia, un sentimento necessario ma insufficiente per innalzare la politica all'altezza, umana e più che umana, che merita.


     
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