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Tugurio e speranza
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Per un amico
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08/08/2023
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Spirito
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Le Medie ( di BSR )
Ho conosciuto Walter alle Medie. Avevamo in comune la passione per il calcio. Lui ne era un cultore, conosceva squadre e giocatori anche delle serie minori. Collezionava figurine, leggeva regolarmente il Guerin Sportivo, ogni tanto andava allo stadio.
Di fede juventina, avrebbe poi abiurato per prendere le distanze da un padre ingombrante. Dopo un ballottaggio tra Sampdoria e Fiorentina, la scelta, puramente estetica, ricadde sulla maglia viola.
Io, tiepido simpatizzante del Toro, non nutrivo un vero interesse per quel mondo. Mi interessava l’aspetto ludico, i quattro calci con gli amici in strada o all’oratorio.
Walter era già una riserva dell’Agnelli quando io superai il provino al Vanchiglia.
Gli allenatori, allora, ti soppesavano con uno sguardo. Ti facevano rincorrere un pallone, fare tre o quattro palleggi e, dalla struttura fisica e da come ti muovevi, capivano se eri idoneo o meno. Come un medico di campagna, in grado di diagnosticare dall’occhio o dall’auscutazione mentre dici trentatré. Accadde che, tornando dal secondo o terzo allenamento, scendendo dal tram dimenticai il sacchetto con le scarpette che avevo legato al mancorrente, per non doverlo reggere. Mia madre mi negò l’acquisto di un nuovo paio, così terminò la mia carriera da calciatore professionista.
Io e Walter intanto eravamo diventati inseparabili.
Un pomeriggio in cui, bighellonando, ci scambiavamo aspirazioni e desideri, transitammo per piazza Solferino, dove un gruppetto di nostri coetanei stava disputando una partitella. Ci sedemmo su una panchina e, in pochi minuti, lo spirito d’osservazione di Walter aveva già coniato due o tre esilaranti soprannomi.
Uno di loro si avvicinò e ci invitò a giocare.
Da quel giorno in avanti, per alcuni anni, quella piazza divenne per noi un appuntamento quotidiano.
Avevamo trovato una squadra iscritta a un campionato. Una associazione sportiva di quartiere, l’Under 16, con un presidente e degli allenatori.
Avevamo trovato dei nuovi amici che avrebbero influenzato le nostre future esistenze.
Piazza Solferino aveva, e in parte ha ancora, quattro spazi: la fontana, uno spazio tra due alberate, una statua, un secondo spazio sempre tra due alberate. Tutto intorno, e anche attorno alla statua, sfrecciavano le auto, vere padrone della città dell’epoca. Mentre la zona vicina alla fontana veniva frequentato da signore con bambini, l’altra era occupato da rari innamorati sulle panchine sotto gli alberi e da una torma di adolescenti, tra i 15 e i 30 ogni pomeriggio, che maramaldeggiavano con un pallone. Le due porte erano tracciate da pali segnati con magliette buttate a terra e le decisioni se fosse goal erano affidate alla voglia di litigare dei contendenti. Il pallone infatti , se tirato con forza, andava in strada. Chi subiva goal doveva andare a riprenderlo in mezzo alle auto che correvano e da questo particolare nascevano le discussioni. Sfide dalle 14.30 alle 18.30 tutti i giorni. La sera invece diventava campo da gioco il piccolo triangolo delimitato dalla scuola media Valfrè, dalla parrocchia San Tommaso e da Via Pietro Micca. Il pallone colpiva, a volte con forza, i passanti o le auto e quindi anche qui le discussioni erano frequenti; ma queste volte con gli adulti rompiscatole.
Walter abitava in Via San Tommaso, numero 7 . E’ un palazzo sull’ angolo di Via Barbaroux. Entrambe le vie, sature di negozietti e botteghe, brulicavano di gente. Una intera filiera commerciale arricchita, verso via Mercanti, dal commercio più antico del mondo testimoniato da sedie, numerose e di varia foggia, vuote o occupate da signore di età prevalentemente avanzata. Valter viveva all’ultimo piano, quello delle mansarde. Salirci non era breve perché le famiglie erano numerose, la televisione pomeridiana non rincoglioniva ancora e il luogo in cui i ragazzini stazionavano preferibilmente erano i pianerottoli, spesso con un pallone in movimento. Con frasi allegramente minacciose tipo “Vade retro tanzarielli maledetti ” si snodava piano per piano la salita. I “Tanzarielli” erano i “piccoli” del 62 e Valter si divertiva con quel nonnismo buontempone che Vincenzo, Michele, Angelo subivano ridendo, non capendo spesso il contenuto lessicale. A volte una guerra di sputi animava l’incontro e troncava il dialogo. Al terzo piano Nicola, della stessa età ma con personalità già più sviluppata, difendendo i coetanei, rispondeva con frasi in napoletano per restituire pan per focaccia. Nel corridoio di sinistra, la mansarda di Walter era la penultima a destra. Da una piccola porta entravi nell’unico vano. Lungo il muro di destra, lavandino e cucina con davanti un piccolo tavolo. Lungo il muro di sinistra armadio e ripiani. A un metro e mezzo dall’ingresso il tetto, che già aveva cominciato a scendere, ti costringeva a chinarsi per non battere la testa . I quattro letti riempivano il locale , erano affiancati e i piedi puntavano verso il punto più basso del tetto, non più di 80 centimetri.
Si andava a casa di Valter per fare il “Giornalino” della squadra, un ciclostilato in cui Sergio faceva l’articolo ironico, Valter la vignetta e Beppe il redattore. La madre faceva lavori a ore da domestica. Rientrava verso le 6 e quando ci vedeva faceva un sorriso lieto, quieto, trattenuto. “Vi preparo una tazza di tè!”. Noi negavamo, “Stiamo andando, grazie”. Valter la celiava. Lei proseguiva e non c’era verso. Il tè andava bevuto, e con molto zucchero, “Che vi fa bene!”.
Il padre non c’era quasi mai. Faceva il pittore. D’estate a Cervo, l’inverno in montagna. “Palestrino”, il nome d’arte. Davanti a terzi faceva l’amicone del figlio, in privato era tutt’altro. Se gli regalava 500 lire non era raro che la sera le rivolesse indietro. Una trattoria di via Montebello era piena dei suoi quadri, dati in cambio delle cene a scrocco. Quando più grandi facemmo una gita a Cervo lo vedemmo in azione con un gruppo di straniere, giovani e belle, sfoggiando il suo “charme” da artista per portarne una a letto. Al suo funerale Walter non ha partecipato.
L’altra passione in comune tra me e Walter era il disegno. Il mio stile era statico, realistico, mediato dall’occhio, lui aveva la mano direttamente collegata al cervello. I suoi disegni erano perlopiù umoristici, sapeva cogliere e tradurre tratti fisici e psicologici in caricature.
Se gli chiedevi di disegnare un qualsiasi soggetto, non aveva bisogno del modello da copiare, lo buttava giù con un tratto semplice, immediato e, sicuramente, stava facendo qualcosa di buffo.
Mi propose un giorno di partecipare ad un concorso interscolastico il cui tema era lo sci. Per superare la mia riluttanza mi suggerì anche l’idea. Disegnai a tempera uno sciatore che inseguiva una coppa, anch’essa sugli sci, tra candide montagne in un tramonto carico dirossi. Un disegno ruffiano.
Lui rappresentò, a pennarello, la popolarità che quello sport aveva raggiunto, con uno sciatore sorridente sui tetti della città.
Il mio disegno si piazzò al quindicesimo posto, il suo al ventinovesimo. Provai un po’ di disagio, ero arrivato prima anche grazie alla sua idea. Ma a lui non importava, avevamo fattouna cosa insieme con un buon risultato.
I primi trenta vennero invitati al teatro Massaua per ricevere l’attestato e assistere all’anteprima del film “Il profeta del gol”, sul più forte calciatore del momento, Johan Cruijff, interprete del calcio totale che, in quegli anni, stava meravigliando il mondo.
Per noi fu una folgorazione.
Tornammo a casa a piedi, colmi d’eccitazione. Era già buio, i nostri genitori forse ci stavano aspettando preoccupati, in quel tardo pomeriggio di fine gennaio con un vento caldo che preannuncia, struggente, la primavera ancora lontana.
In quel tardo pomeriggio due amici si rincorrono, ridendo, incuranti degli anni a venire, nella pienezza del presente e la vita davanti.
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Vai a un documentario dell'epoca
https://www.youtube.com/watch?v=W-kw5UGeZqo
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